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#SAVEGAM

08/04/2015

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Perché contesto la drastica riduzione di orario della biblioteca della Galleria d’arte Moderna di Torino; e perché credo che gli studenti dell’università debbano essere sostenuti in questa loro protesta. Qui

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Il momento Eureka. Pensiero critico e creatività è il mio eBook sull’innovazione cognitiva, appena uscito per Doppiozero, a cura di cheFare: dedicato ai processi di scoperta e esplorazione, all’intuizione e alle sue origini composite, all’allineamento di pensiero convergente e divergente, a ciò che chiamiamo la “scintilla” (o il “momento Eureka”, appunto) e smentisce la tesi delle “due culture”.
 
Scrivere questo libro, al cui interno la storia dell’arte dialoga con le scienze cognitive, l’antropologia culturale, la teoria politica e i creativity studies, ha avuto per me un’importanza tutta particolare, teorica e affettiva insieme.
 
Il download è gratuito dalla libreria di Doppiozero, qui. E sul sito di cheFare trovate un abstract ita|eng dal titolo Anatomia della creatività [Anatomy of Creativity], sul rapporto tra arte, storia dell’arte e scienze cognitive (qui; una precedente anticipazione @Doppiozero, Ricerca e rete, qui).

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Come cambia oggi il ruolo del museo di arte contemporanea? La pratica delle “mostre” mantiene centralità, oppure sono più importanti processi di formazione? Come possiamo definire i suoi possibili rapporti istituzionali con il mondo dell’innovazione sociale e tecnologica? Ne scrivo qui discutendo alcuni modelli internazionali di istituti di “creative technology”.

#LexGelmini

22/12/2014

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Non era difficile prevedere quali potessero essere le conseguenze della legge di riforma universitaria varata dall’allora ministro Maria Stella Gelmini. Ne ho scritto per tempo, contestando la legge e cercando di delineare l’archeologia politica dell’intero processo di riforma in Humanities e innovazione sociale (doppiozero, Milano 2012, qui).

Quello che mi colpiva nel biennio cruciale 2010-2011 (e continua a colpirmi oggi) era (è) l’atteggiamento dei vertici accademici se non della maggioranza degli universitari. E (aggiungo) pure di quanti, ricercatori indipendenti, scrittori, intellettuali trenta-quaranta, agit-prop cognitivi, dopo essere transitati dall’università pubblica e aver confidato di svolgervi un lavoro, guardano alla sua distruzione come a un problema semplicemente tecnico o settoriale.

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Da oggi a domenica prossima sono a Palermo  per prendere parte a Nuove pratiche, convegno-Festival dedicato ai temi dell’innovazione culturaleTutto si annuncia dibattuto e avvincente. Ho appena pubblicato il mio intervento qui (@L’Huffington: short version) Maggiori info sul Festival invece qui (@Cantieri culturali alla Zisa nei giorni 17 e 18 ottobre).

E’ curioso. Tutti discutono sul tema dell’istruzione e, a leggere i giornali italiani, parrebbe che nel paese si fosse raggiunta una ragionevole unanimitá almeno su una circostanza: se l’industria italiana perde posizioni questo dipende dall’insufficiente qualificazione del “capitale umano”. Non dalla “scuola che non forma al lavoro”.

Lo ha detto Ignazio Visco a Cernobbio, lo scrive Edmund Phelps sul#Sole24Ore. In altre parole: un’industria che cresce si va a cercare i tecnici dove li trova. Non dipende certo dall’offerta nazionale. Ma l’industria italiana non cresce e non assume, né in Italia né altrove. Se lo sviluppo industriale italiano dei decenni passati ha trasformato molti operai in piccoli imprenditori, oggi volontá e duro lavoro non bastano più. Occorre avere la capacitá di cogliere il mutamento, cioè immaginazione: proprio la cosa che una rigida istruzione tecnica uccide. “E’ facile, ma pericoloso”, ammonisce Howard Gardner, psicologo cognitivo e scienziato dell’apprendimento, “concludere che in futuro ogni indirizzo formativo dovrà essere imperniato sulla matematica, le scienze e la tecnologia”.

Tutto chiaro per tutti dunque? Non proprio. Perché il best seller politico-educativo italiano dell’anno, brandito e celebrato da tutti i maggiori quotidiani nazionali, non è firmato da Visco né da Phelps né (poniamo) da Krugman, ma dall’attuale presidente di Assolombarda e giá responsabile Education [sic] di Confindustria, Gian Felice Rocca, leader di Techint etc. Si intitola Riaccendere i motori e risulta del tutto in controtendenza rispetto alla più autorevole opinione internazionale.

Per Rocca come per le innumerevoli teste d’uovo confindustriali – i soli in definitiva che la nostra classe politica sia davvero disposta a ascoltare – ci sono troppi laureati nel paese. Il progetto è dunque quello del “paese dei periti”.

Qual’è la morale della fiaba? Questa. Se altrove ci si preoccupa di sostenere l’innovazione, dunque l’occupazione qualificata e meglio retribuita, in Italia si preferisce retribuire meno il lavoro. E’ chiaro che un tecnico costa meno, in ingresso, di un laureato: il 15, 20 o 30% in meno. Possiamo considerare questa differenza come l’equivalente di una vigorosa svalutazione competitiva: l’ancestrale risorsa del cummenda italiano. L’ingresso nell’euro ci impedisce di svalutare? Bene. Dequalifichiamo l’offerta di lavoro.

Secondo voi: a quale dei due punti di vista terrá fede la riforma della scuola preannunciata dal premier, dal titolo “la Buona Scuola”?

http://www.roars.it/online/teaching-vs-research-universities-il-punto-di-vista-di-gianfelice-rocca-su-anvur-universita-ricerca-e-innovazione/

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_ROARS, 15.6.2014, qui

Tra gli ispiratori delle recenti riforme universitarie e già presidente del comitato consultivo di ANVUR, Gianfelice Rocca disegna le politiche dell’educazione superiore stabilendo che “il paese ha troppi professori e pochi professionals”. Vediamo con quali conseguenze e implicazioni.

“…Sono nato nel 1966 e ho dunque un rapporto archeologico con gli anni Settanta: nient’altro. Avevo poco più di un anno quando la contestazione studentesca attraversava la penisola. Al tempo del sequestro di Aldo Moro frequentavo la seconda media. Trovo perciò dissociativo, oltreché discriminatorio, invocare misure distruttive dell’autonomia della ricerca rievocando contrapposizioni ideologiche passate.

A mio avviso l’università è (nel senso che deve essere) un luogo di democrazia avanzata, in cui le ragioni del “talento”, dell’indagine critica e dell’autodeterminazione si intrecciano virtuosamente a quelle dell’equità sociale. Al pari di tanti ricercatori e scienziati della mia generazione (o delle generazioni più giovani) ho avviato la mia carriera universitaria sotto le condizioni meno propizie, dopo che reclutamenti indiscriminati ope legis, a cavallo dei decenni Settanta e Ottanta, avevavo saturato i dipartimenti e distrutto le corrette modalità di accesso alle professioni della ricerca. Chiedo quindi di non essere ucciso dagli stupidi missili di una guerra fredda che continua a esistere solo nell’immaginazione patriarcale. Che la discussione segua allettanti linee pragmatiche e verta sulle difficoltà reali di chi in università vive e lavora ogni giorno. Oggi…”

 

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Scrivo dell’ultimo libro di Tomaso Montanari, Istruzioni per l’uso del futuro (minimum fax) @Alfabetadue, qui

“La saggistica attraversa difficoltà crescenti, certo non solo in Italia. Gli editori chiedono racconto: solo l’intrigo poliziesco o la saga familiare sembrano poter sopravvivere alla tempesta industrial-culturale. Per uno storico dell’arte di formazione accademica si pone dunque la necessità di mantenere in vita la scrittura saggistica conferendole forme «altre» e (per così dire) avvolgendo in involucri narrativi il pensiero critico”.

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_Artribune, 4.4.2014, qui “…Evitiamo lagnanze corporative. Proviamo invece a suggerire spunti di riforma. Quali politiche culturali per i musei di arte contemporanea? Le politiche di austerità incidono. Il modello Krens-Guggenheim di museo corporate è fallito assieme alle entusiastiche narrazioni neoliberiste sulla globalizzazione. Può sembrare discutibile destinare ingenti somme di denaro pubblico a musei che sembrano aver smarrito un ruolo civile per diventare concessionarie di gallerie e architetture da noleggio…”

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I dettagli spesso nascondono implicazioni rilevanti. Per esempio. Nell’intervista che Enrico Mentana ha appena condotto in studio con Matteo Renzi per Bersaglio mobile mi ha colpito un passaggio forse destinato a passare sottotraccia, che assume però grande rilievo. Poco più (o poco meno) di un lapsus.

Dunque, i fatti. Interrogato (da Mentana) sui suoi rapporti con Marco Carrai in relazione a presunti conflitti di interesse, Renzi ha risposto sbrigativamente che non ce n’erano, derubricando varie questioni – inclusa quella che mi sta più a cuore, il discusso conferimento di un incarico di curatela di una mostra pubblica a persona sprovvista di requisiti e legata da rapporti personali all’”amico fraterno” – a beghe “fiorentine”. La domanda è: sono davvero “beghe fiorentine”, vale a dire locali? La mia risposta è no.

Immagino che un giornalista meno compiacente avrebbe dovuto incalzare Renzi sulle proprie reticenze, ma non è questo (o non solo) il punto. Mentana si è spinto oltre nel concordare con il primo ministro. Ha aggiunto che tutto ciò era in effetti una “bagattella”. Forse ha inteso riferirsi alla casa graziosamente prestata da Carrai a Renzi. Forse proprio alla mostra. O forse a entrambe le “questioni”. Sta di fatto, ha concluso tranchant, che la notizia croccante di questi giorni è (o sarebbe) un’altra: la Banca Popolare Cinese ha acquistato il 2% delle azioni Eni e Enel.

Dubito che la campagna cinese di acquisizioni azionarie debba essere ritenuta indiscutibilmente prioritaria, se non da punti di vista convenzionali e interni a determinate cerchie sociali. Le questioni di diritto sono (o dovrebbero essere stimate) non meno importanti delle cronache economiche o del Grande Spettacolo del Capitale. Non intendo tuttavia polemizzare con Mentana quanto considerarne le assunzioni da punti di vista distaccati e (per così dire) “etnografici”. Mi limiterò quindi a formulare due ipotesi sperimentali: una sull’opinione mainstream, l’altra sugli storici dell’arte “militanti”.

1_ Nell’accogliere senza esitazione le autovalutazioni di Renzi, Mentana ha espresso istintivamente il punto di vista della maggioranza della classe dirigente politico-economica italiana; maggioranza (a mio avviso) in larga parte prigioniera di un pregiudizio anticulturale che le impedisce di riconoscere le concrete connessioni esistenti tra “ricerca” e lavoro; “cultura” e diritto.

2_ L’attuale discorso storico-artistico è inefficace: fallisce nel compito di correlare “cultura” e economia; “cultura” e politiche delle pari opportunità. Con l’enfasi che lo distingue, posta su “popolo”, “padri costituenti” e “patrimonio”, non riesce a rivolgersi in modo persuasivo a chi già non abbia identiche opinioni, diffidi di pose testimoniali e sia comunque costretto a constatare la rigidità burocratica, l’inefficienza o il soverchiante interesse antiquario di parte dell’apparato pubblico di tutela. Un’agenda politica one issue è destinata a rimanere minoritaria. L’invocazione del “bene comune” con riferimento al “lascito dei padri” (non della conoscenza in quanto tale, della felicità o dell’emancipazione) appare discutibile se non retriva. La causa del patrimonio, per quanto “nobile”, non autorizza chi fa ricerca a sacrificare l’argomentazione razionale e l’attitudine sperimentale alle ragioni della faziosità o della propaganda, come spesso accade.

Torniamo a Bersaglio mobile. A mio parere il caso specifico – il conferimento di una remunerativa curatela a persone che non hanno attività di studio e pubblicazione durevoli e comprovate – costituisce una palese inopportunità, se non una lesione del diritto (ne ho accennato qui, ricostruendo circostanze e contesto*).

Per quanto Renzi e Mentana mostrino di ignorarlo, il loro atteggiamento di sufficienza costituisce una duplice forma di censura. Nega il punto di vista di chi fa ricerca. E infrange un criterio di trasparenza nell’assegnazione di incarichi pubblici. Avremmo necessità di controargomentazioni tempestive e brillanti. Invece, vuoi per mancanza di nuove strategie argomentative o di un maggiore equilibrio autoriflessivo, le retoriche della denuncia adottate da chi scrive di patrimonio potrebbero presto diventare moneta fuori corso.

* Michele Dantini, Matteo Renzi e le politiche della cultura, in: ROARS, 16.3.2014.