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Qui @minimaetmoralia il mio Diario di viaggio con revenant: Ettore Sottsass jr. e i madaleniani: a suo modo un “viaggio in Italia”.

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Nel ricostruire con ammirevole ampiezza documentaria e abilità narrativa il sacco di Roma del 1527, André Chastel ha avuto il merito di richiamare l’attenzione sui tratti storici e stilistici di una scena artistica in formazione e di mostrarne l’irreparabile dispersione[1]. Ma la lettura del Sacco, testo di storia politica e sociale, di antropologia culturale e teoria dell’arte non meno che di “storia dell’arte”, induce a riflettere su taluni limiti o ambivalenze della cultura italiana della conservazione. Provvedimenti importanti a tutela dell’ingente patrimonio archeologico della città di Roma furono presi dal successore di Clemente vii, Pio iii, già nell’autunno del 1534, a distanza di pochi anni dal sacco. Si trattava certo di provvedimenti necessari, singolarmente smentiti, tuttavia, dalle estese demolizioni (anche di chiese) concepite in previsione della trionfale visita di Carlo v, nell’aprile del 1536. Più in generale, osserva Chastel, che rievoca anche i primi propositi di storia dell’arte italiana ad opera dell’umanista Paolo Giovio, l’enfasi storico-artistica si accompagnò al tempo all’esperienza dell’asservimento e al senso di un’intollerabile “vergogna” e disonore.

Venuti meno, con la catastrofe politico-militare che conduce all’occupazione della “città eterna” da parte di mercenari luterani e soldataglie italiane e spagnole lasciate senza capi, gli ambiziosi progetti politici coltivati da umanisti come Machiavelli o Guicciardini, i primi atti di tutela coincidono cronologicamente con la “fine della libertà italiana” e traggono dalle circostanze un’amareggiata nostalgia. Si cerca nel “patrimonio” un’improbabile compensazione al “senso di abbandono”[2]. Assistiamo a una “precoce celebrazione delle glorie locali”, conclude lo storico, “e l’esigenza di risarcimento attraverso l’arte si rivela incontenibile. Il generale ottimismo del Rinascimento è cosa del passato. Con il fallimento di un’egemonia ‘italiana’ si creano le condizioni più favorevoli perché la penisola rimanga ostaggio di celebrazioni immaginarie e vuote parate”. Dubito che il discorso antiquario oggi corrente sia in grado di emanciparsi dal cupo presupposto originario o combattere una malinconia pregiudiziale intrisa, come maliziosamente è stato scritto, di “vituperio”[3].

 

[1] André Chastel, Il sacco di Roma, Torino, Einaudi 1983 (1983), p. 221 e ss.

[2] La nuova generazione artistica riflette il mutamento. All’inventiva spregiudicatezza dei pittori emergenti attorno al 1525, da Parmigianino al Rosso, da Giulio Romano a Polidoro da Caravaggio e Perin del Vaga, subentra a cavallo del nuovo decennio l’affettazione “storicistica” di una generazione “il cui unico interesse”, commenta Chastel, “erano le antichità” (ibid., p. 222).

[3] Alvar Gonzales-Palacios, Gli autoritratti scarseggiano, in: Il Sole 24Ore, 24.8.2014, p. 27.

Marc Chagall

24/08/2014

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Al momento di tornare a scriverne credevo che avrei continuato a detestarlo, anche se le sue variazioni in chiave vernacolare o l’eclettismo fauvecubista avevano indubbiamente nutrito l’immaginazione espressionista in Germania e il Carrà primitivista in Italia. Ma a considerarne meglio l’attività ho trovato dimensioni più salde e durature, e stagioni artistiche davero felici (a Parigi subito prima della guerra; a Vitebsk tra 1917 e 1918, in polemica con Malevich; a Parigi e nel sud della Francia negli anni Trenta). Infine sono stato lieto di indagarne più a fondo repertori, beatitudini e irritazioni. Quale ammirazione, da parte sua, per Jacopo Bassano, Tintoretto, Rembrandt o El Greco! Esce in questi giorni il mio Dossier dedicato a Marc Chagall (ArteDossier, settembre 2014): con alcune “precisioni” predisposte da tempo su di lui e gli “orfici” parigini (in primo luogo Metzinger e Delaunay).

Humanities

“Sulla tirannide” di Leo Strauss è un esame incredibilmente minuzioso del “Gerone” senofonteo, dialogo dedicato al problema di come emendare il governo dispotico dalle disposizioni alla depravazione e alla crudeltá. Con grande abilitá, Strauss ricostruisce a distanza le posizioni di Socrate sul rapporto tra giustizia e legalitá da una parte, tra filosofia e società dall’altra. Le riserve straussiane sul costituzionalismo liberale, enunciate de iure, si intrecciano all’ammissione che questo è pur sempre de facto il regime migliore. Il discorso è specifico, e procede per sequenze interminabili di breve proposizioni paratattiche congiunte in forma di scolio. Sembra quasi di avvertire la voce trattenuta dell’interprete di testi sacri che accenna con brevi e successive approssimazioni all’esito del ragionamento. La cautela può sembrare (ed è) torturante, ma il tema è tutt’altro che pretestuoso o l’intenzione pedante: la scienza politica moderna non ha saputo riconoscere la tirannide contemporanea quando questa è apparsa, e…

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“Sulla tirannide” di Leo Strauss è un esame incredibilmente minuzioso del “Gerone” senofonteo, dialogo dedicato al problema di come emendare il governo dispotico dalle disposizioni alla depravazione e alla crudeltá. Con grande abilitá, Strauss ricostruisce a distanza le posizioni di Socrate sul rapporto tra giustizia e legalitá da una parte, tra filosofia e società dall’altra. Le riserve straussiane sul costituzionalismo liberale, enunciate de iure, si intrecciano all’ammissione che questo è pur sempre de facto il regime migliore. La posizione dello studioso è convenzionalistica, e rivendica separatezza: al saggio si addice mostrare rispetto per le convenzioni del diritto. Nella ristretta cerchia dei simili gli sarà tuttavia permesso di dubitare della bontà di leggi che discendono dall’accordo (verosimilmente fallace) tra molti. Il discorso è specifico, e procede per sequenze interminabili di breve proposizioni paratattiche congiunte in forma di scolio. Sembra quasi di avvertire la voce trattenuta dell’interprete di testi sacri che accenna con brevi e successive approssimazioni all’esito del ragionamento. La cautela può sembrare (ed è) torturante, ma il tema è tutt’altro che pretestuoso o l’intenzione pedante: la scienza politica moderna non ha saputo riconoscere la tirannide contemporanea quando questa è apparsa, e il filosofo che più si è distinto nell’interrogazione antistoricistica del pensiero greco, Martin Heidegger, si è irreparabilmente compromesso con il regime nazista.

Humanities

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Adorabili questi petits maitres che dipingono campagna. Virgilio nell’orto di casa, tra la comare e la pieve, e una foglia innervata che neppure Ph. O. Runge. Per la gourmandise: zucche, carote, ravanelli, melanzane. Addenda? Paniere in giunco e vimini.

Felice Orlandi (1799-1870 ca.). Rimini, Museo Civico.

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Adorabili questi petits maitres che dipingono campagna. Virgilio nell’orto di casa, tra la comare e la pieve, e una foglia innervata che neppure Ph. O. Runge. Per la gourmandise: zucche, carote, ravanelli, melanzane. Addenda? Paniere in giunco e vimini.

Felice Orlandi (1799-1870 ca.). Rimini, Museo Civico.

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“Vita activa” di Hannah Arendt è un testo incredibilmente potente, senza cui non potremmo comprendere le ricerche di autori tra loro pur così diversi come Habermas, Sennett o Nussbaum. Mi colpisce che il libro, influenzato tanto in profondità dall’insegnamento friburghese di Heidegger negli anni in cui Arendt è sua allieva, non lo citi mai, così come non cita mai Schmitt, pure altrettanto presente nella rievocazione arendtiana della polis greca. Certo, le ragioni di prudenza e il distacco personale hanno contato: negli Stati Uniti del 1958, quando Arendt pubblica “Vita activa”, non si sarebbe potuto impunemente rinviare a autori connessi al nazismo. In questo senso “Vita activa” è un testo mirabilmente sincretico: tace le sue fonti e dà per fonti primarie fonti secondarie. Tuttavia c’è forse una ragione più sottile nell’omissione. “Vita activa” è dedicato alle virtù antiche del coraggio e alla sagacia. Mentre riconosce indirettamente (ma in modo inoppugnabile) il primato del filosofo-Heidegger, contesta forse all’uomo-Heidegger una sorta di opaca gregarietà nel quotidiano e la scarsa integrità nelle scelte concrete: l’adesione al nazismo, certo, la posizione mai del tutto chiara sull’olocausto, il comportamento opportunistico e al limite della viltà con Husserl o l’assoggettamento a una donna ferocemente razzista, sua moglie. Per più versi, e senza intenzione diminutiva, potremmo ritenere che “Vita activa” sia qualcosa come una corrispondenza in codice, il diario altamente cifrato di un distacco e una scrittura privata.