Di seguito il programma del convegno internazionale Rome Revisited. Rethinking Narratives in the Arts 1948-1968, che si terrà nei giorni 15 e 16 all’American Academy di Roma (info qui).
Qui l’abstract in inglese del mio intervento, dedicato ai rapporti tra Manzoni e New Dada e alla ludica reinvenzione del “classico” attraverso inedite strategie di citazione.
#PieroManzoni
20/11/2014
La mia tesi? Ritengo che esista una cesura netta tra il primo e il secondo Manzoni, e cioè tra l’artista “orfico-metafisico” degli Achromes da un lato (dei primi Achromes: 1957-1959), bene inscritto nella tradizione modernista italiana; e l’an-artista (performativo e New Dada) delle Linee, dei Fiati e delle Merde dall’altro. Una cesura non del tutto autodeterminata e che interpreta importanti mutamenti geopolitico-culturali.
La conoscenza manzoniana del New Dada newyorkese è a mio avviso indiretta e fascinosamente spuria: passa per il racconto (o la leggenda) forse persino più che per la conoscenza diretta di una riproduzione a stampa. Si avvale di testimoni d’eccezione: via Roma e via Milano.
Nell’uno e nell’altro caso Manzoni non è l’artista descritto da Germano Celant in chiave International Style (#pro-export).
Il mio contributo più recente alla conoscenza di #PieroManzoni qui.
Inauguro oggi una serie di “reprint”, cogliendo l’occasione dell’evoluzione_migrazione del mio blog. Iniziamo con questo articolo su Giulio Paolini, apparso circa un anno fa. Buona lettura!
_in: Doppiozero, 10.1.2013, qui
“…La tradizione cui Paolini fa riferimento ha nel magico candore della statua o nel disvelamento pittorico del volto divino il suo soggiogante compimento. Giunge fino all’artista irradiando, oltre che dal museo classico, da De Chirico e in parte Fontana. Colpisce che ancora oggi, o forse soprattutto oggi, Paolini estragga dal dizionario storico delle arti il termine di “sprezzatura” rivendicandolo per sé (per la propria opera) e per così dire indossandolo: termine che più di ogni altro connota storicamente l’attitudine manierista “al saper fare qualcosa di non detto, non dichiarato e tanto meno esibito, eppure capace di meravigliare per la sua inaspettata perfezione”.
Ricordiamo l’atteggiamento “preciso noncurante” che Schifano riconosce come proprio? Bene. Esiste una stagione nell’arte italiana tra fine Cinquanta e primi Sessanta che potremmo paragonare a una fioritura effimera e felice, apertasi nel punto esatto di intersezione tra metafisica, New Dada e monocromo: il giovane Paolini vi si inserisce al tempo in modo autorevole e tempestivo. Per un attimo si è potuto credere, giusto qui, proprio in Italia, che non esistessero distanze invalicabili tra tradizione classico-rinascimentale e contemporaneità, aura e ready-made, madrelingua e mainstream, eleganza e trivialità.
Una semplice tela bianca, come Disegno geometrico (1960), poteva contenere in “idea” le epifanie di tutti i musei del mondo; e lo “scatto” fotografico, l’“inquadratura”, potevano proporsi come metafora dell’illuminazione.
La presenza di Twombly a Roma incoraggiava inventive ricombinazioni dell’eredità culturale: “sprezzature” appunto. Quell’attimo è trapassato sin troppo rapidamente ma la validità di una proposta culturale permane…”