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Come cambia oggi il ruolo del museo di arte contemporanea? La pratica delle “mostre” mantiene centralità, oppure sono più importanti processi di formazione? Come possiamo definire i suoi possibili rapporti istituzionali con il mondo dell’innovazione sociale e tecnologica? Ne scrivo qui discutendo alcuni modelli internazionali di istituti di “creative technology”.

Esistono “zone di contatto” e significative sovrapposizioni tra due sottomondi sociologici che consideriamo distanti? Ha senso considerare l’arte contemporanea, quantomeno nella sua componente mainstream, ancora un artigianato umanistico, alla ricerca di qualcosa come “gusto”, “profonditá”, motivazione intrinseca e autonomia della “cultura”? E il modello di “innovazione dirompente” vale anche per la competizione artistica e “culturale”? Ne scrivo @Artribune #22.

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E’ singolare. Negli stressi giorni in cui l’ISIS sceglie di chiudere i dipartimenti di filosofia, archeologia e scienze giuridiche dell’università di Mosul il premier Matteo Renzi torna a deridere “professori” e “intellettuali”. La coincidenza è del tutto estrinseca: nessuna persona sensata potrebbe paragonare l’uomo politico democratico alla temibile polizia politica dei mujahidin. Trovo comunque che una spettrale analogia si stabilisca tra i due fronti.

.@matteorenzi e la polemica contro ‪#‎intellettuali‬ . Ne scrivo @The Huffington Post qui.

 

 

Fano, Centro Studi Vitruviani, 23.10.2014.

a cura di Bruno Zanardi, con Giorgio Agamben, Lorenzo Casini, Michele Dantini, Raffaele La Capria, Alberto Magnaghi, Anna Marson, Tomaso Montanari, Massimo Quaini, Alberto Saibene, Salvatore Settis, Antonella Tarpino.

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Da oggi a domenica prossima sono a Palermo  per prendere parte a Nuove pratiche, convegno-Festival dedicato ai temi dell’innovazione culturaleTutto si annuncia dibattuto e avvincente. Ho appena pubblicato il mio intervento qui (@L’Huffington: short version) Maggiori info sul Festival invece qui (@Cantieri culturali alla Zisa nei giorni 17 e 18 ottobre).

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E’ giusto dire che l’arte italiana contemporanea è tenue o evanescente? E trarre occasione dal mancato invito di giovani artisti italiani a questa o quella n_Biennale planetaria per contestare l’attività di un’intera generazione? Ripubblico qui un mio intervento già ampiamente discusso (e pubblicato in Geopolitiche dell’arte italiana, Christian Marinotti, Milano 2012), ma scomparso dal Web a causa della mia migrazione dal mio blog precedente a questo. A mio avviso il punto fondamentale è: un eccesso di oligopoli interpretativi ha impedito ai più giovani di maturare competenze e sviluppare necessari conflitti genealogici. Generazioni cronie hanno divorato le generazioni figlie. Ecco il testo: vi si parla di #arte italiana, #cosmopolitismo, #ereditàculturale, #storiaememoria, #sferapubblica, #innovazione, #fantasmaclassico e #patriarcato.

 

_il manifesto, 10.4.2012, pp. 10-11

Potremmo periodizzare l’arte italiana contemporanea recente stabilendo che una svolta “politica” in pratiche e “contenuti” o il dibattito sulle crescenti difficoltà di affermazione internazionale degli artisti più giovani hanno caratterizzato gli ultimi anni. La generazione dei trenta-quarantenni ha ritrovato interesse per la storia nazionale, la compulsazione di archivi sociali e politici, la ricomposizione di memorie dolorose, tacitate o disperse. A fronte di istanze radicali di politicizzazione, il mercato dell’arte, finanziarizzato e ubiquo, premia orientamenti desituati e oppone formidabili ostacoli alla connessione tra produzione estetica e ricerca.

Circolano interpretazioni diverse della ridotta capacità di competizione degli artisti italiani nel contesto globale. Si contesta l’acquiescenza di critici e curatori o si adducono specificità antropologiche, generiche quanto implausibili. Esistono forse circostanze fattuali, storiografiche e istituzionali: il deficit didattico e di narrazioni storico-artistiche qualificate e indipendenti. Sono da troppo tempo in auge versioni ufficiali, ripetitive e dogmatiche, della storia artistica italiana contemporanea; storie che non spiegano più e sembrano invece fuorviare. “Quanto accade in arte attorno al 1968 non è stato ancora chiarito”: accolta alla lettera, candidamente, l’affermazione di Celant, datata 1981, non suona forse stupefacente?

Le retrospettive di De Dominicis e Pistoletto tenutesi al Maxxi tra 2010 e 2011, preziose perché ampie nella selezione delle opere, tuttavia insufficientemente accompagnate da indagini scientifiche e troppo vincolate a autorizzazioni familiari o di fondazione; e le innumerevoli mostre sull’arte povera in programma tra 2011 e 2012 esemplificano il punto. Prevalgono voci e prospettive consolidate, detenute pressoché in monopolio. Assistiamo al paradosso di artisti, critici e curatori sovraesposti e al tempo stesso poco conosciuti, mai davvero restituiti alla discussione pubblica attraverso e oltre le mitografie tramandate. Eppure svelare costellazioni di rapporti e avviare processi di storicizzazione dei seniores sembrerebbe il modo migliore per riconoscere un’eredità culturale e contribuire a una maggiore conoscenza delle sue durevoli necessità storiche e sociali.

L’enfasi su idiosincrasia, fatuità, ornamento, dismisura, moda, capriccio, stabilita per l’arte italiana post-Cattelan da fundraiser abili e ferocemente conformisti come Massimiliano Gioni (curatore della prossima Biennale di Venezia) o rilanciata da mostre come Sindrome Italiana al Magasin di Grenoble (2010-2011), risolve forse nell’attimo l’acuta impasse attuale. Conferma tuttavia che non esiste partecipazione a processi storici condivisi e che, al di là delle opere, manca la forza di avviare un confronto autorevole con la tradizione recente.

Accade qualcosa che difficilmente si dà in altri contesti avanzati: e che ha come prima causa il disinvestimento pubblico da musei, università, centri di ricerca. La storiografia viene a coincidere con la testimonianza autobiografica, l’interpretazione con il testo promozionale o l’intervista. Per deficit di istituzioni formative e espositive qualificate, pronte a intrecciare ricerca e produzione, in Italia regna una concezione privatistica e patrimoniale della memoria. La vicenda Triple Candie ad Artissima 2011 è rivelativa. Un giovane curatore invita un collettivo di artisti americani a produrre un progetto critico sull’arte povera. Timorosamente esterofilo nelle scelte curatoriali e assai debole sotto il profilo visivo, tuttavia non privo di graffiante ironia, con caricature di opere celebri e la messa in discussione della leggenda celantiana, il progetto è rifiutato a pochi giorni dall’inaugurazione: non, pare, per i suoi limiti interni ma per le possibili ritorsioni del patriarcato poverista.

L’opacità della tradizione italiana recente ai nostri stessi occhi è tale che le interpretazioni più accreditate dell’arte povera o della transavanguardia, cioè dei movimenti artistici italiani affermatisi internazionalmente negli ultimi decenni, sono prodotte da comunità di studio angloamericane. Ne è un esempio il numero di October (rivista di storia dell’arte contemporanea del MIT) dedicato all’arte italiana del dopoguerra (primavera 2008): non pochi interventi hanno il merito di rilanciare interrogativi o istanze di ricerca ma non mancano sviste o semplificazioni in chiave rudemente folklorica. In Italia non mancano esempi di inedita vivacità critica e storiografica, particolarmente tra le giovani generazioni, e si vanno producendo innovazioni interpretative o di metodo, ad esempio con la riconsiderazione dei rapporti tra storia delle immagini e storia dei contesti, la discussione critica della tradizione, il nuovo credito concesso a critici già collocati a margine, come Lonzi o Fossati. Sinora non esiste però una narrazione articolata e complessa della storia dell’arte postbellica, che riesca a intrecciare storia delle immagini, storia della critica e storia sociale; acutezza filologica e radicalità inquisitiva; e torni a avvicinare opere e famiglie di opere che ideologie o vicissitudini collezionistiche e di mercato hanno diviso.

I nuclei collezionistici più qualificati, omogenei e facilmente accessibili, poveristici, concettuali o altro, sono per lo più all’estero: in America, Germania, Svizzera. In decenni in cui l’agenda postcoloniale ha modellato pratiche interpretative e strategie di sovranità storiografica, il Centro scrive tuttora di una Periferia, quella italiana, che non riesce a elaborare in modo riflessivo il trauma della propria minoritarietà linguistica né a trasporlo in iniziativa culturale di rilievo sovranazionale. E’ inevitabile che da parte di artisti, critici, curatori early career vi sia difficoltà a rintracciare un’effettiva genealogia professionale da cui muovere; a acquisire precoce intimità con un’agenda nativa di temi e problemi. Sprovvisti di efficaci criteri di scelta, si è esposti alla proliferazione di higlights e discorsi secondari di cui sono disseminate blog, fanzine, riviste, portali. Prevalgono percorsi individuali e in larga parte casuali, da autodidatti: non sempre è un vantaggio.

La questione storiografica si intreccia intimamente alla questione più ampia della riappropriazione di conoscenze, tecniche e saperi da parte delle generazioni “precarie”, le attuali. Orientarsi in territori artistico-culturali rischiarati, disporre agevolmente di pratiche e “dizionari”, individuare dissensi e polemiche necessari: sono atti immaginativi orientati non a ciò che è stato ma a ciò che sarà. “Più che stabilire continuità”, scrive Anna Bravo in A colpi di cuore (2008), “la funzione elettiva degli alberi genealogici è mostrare i modelli a cui si rivolge un fenomeno nuovo; i modelli che ignora, quelli che inventa, e gli effetti che le scelte hanno sull’autoimmagine, la memoria, la storia”. Desideriamo muoverci abilmente e senza impaccio etnografico? Non possiamo farlo se ci affidiamo a logore versioni autocelebrative o ci conosciamo attraverso le narrazioni di storiografi imperiali che con pieno merito hanno disposto e interpretato i documenti, organizzato l’archivio, fatta scrupolosa manutenzione dei “significati”. Una riflessione critico-teorica acquisisce oggi status globale solo se situata, pronta a riformulare in modo efficace il “nativo” e il “locale”.

Curata da Francesco Bonami, la mostra Italics (2008, Palazzo Grassi)ha contribuito a avviare una riflessione sulla “specificità”, se tali, della scena artistica italiana contemporanea, sia pure in modo a tratti litigioso, reticente o confuso. Da circa quattro decenni, questa la tesi, l’arte italiana non riesce a imporsi, a produrre opere e interventi avvincenti perché corali, con scenari collettivi ben costruiti, un romanzo, un’epopea. Perché, si è indotti a chiedersi? L’arte italiana appare connotata dal distacco dalla sfera pubblica almeno dalla seconda metà degli anni Ottanta, se non già dal biennio “caldo” 1968-1969: le ragioni sono storiche e politiche prima che culturali. Il sistema dell’arte italiano è attualmente sorretto in misura pressoché esclusiva da capitali privati, in larga parte provenienti dall’industria del design e della moda. È quasi inevitabile, in assenza di un’efficace commitenza pubblica e di patronage dedicato, che temi o orientamenti “civili” siano trascurati: la composizione sociale e culturale della ricchezza, nel nostro paese, non è la più favorevole a orientamenti che stabiliscano distanze tra opere d’arte e merci di lusso.

“L’arte italiana”, sibila Bonami, “è stata violentata dal fondamentalismo politico che ne ha soppresso gli istinti internazionali più forti”. Nutriamo ragionevoli dubbi sul fatto che Argan, obiettivo polemico di Bonami, sia all’origine delle difficoltà odierne. Ma volgiamo per un attimo in domanda la recriminazione. Che cosa si attende, la platea globale, da un artista italiano, e quali sono “gli istinti internazionali più forti”? Emerge, da Italics, una prospettiva frammentaria e curiosamente restaurativa, formulata per accenni prudenti; prospettiva all’origine di scelte curatoriali successive, ad esempio nei Padiglioni italiani delle due ultime Biennali di Venezia, nel 2009 e nel 2011, tanto più discutibili sotto profili estetici, tecnici e professionali del progetto di Bonami, pure pronti a accoglierne l’appello populista e identitario e rilanciare l’argomento di una “vocazione” profonda dell’arte italiana. “La rimozione forzata, negli anni Settanta, di pittura e religione”, biasima Bonami, è “il trauma di una cultura che anziché cercare nella propria specifica intraducibilità l’occasione per diventare universale, ha preferito diventare introversa, finendo per parlare a se stessa”. Sul finire degli anni Settanta, con il ritorno alla pittura, si poteva infine sperare “in un recupero innovativo… Ma anziché sviluppare l’idea di un luogo, l’Italia, come fabbrica di genialità internazionale, [si] è ripiegati sulla catastrofica idea del genius loci.”

Non ha importanza, nel caso specifico, cogliere l’acerba polemica di Bonami con Bonito Oliva, quanto misurare il senso e perfino la paradossale vicinanza di posizioni peraltro aspramente conflittuali sul mercato della curatela. Il curatore di Italics, responsabile di istituzioni influenti e disparate, al centro di una densa rete di rapporti internazionali, non dismette la prospettiva in sostanza neofolklorica (o “irrazional-popolare”, come lui stesso la definisce) che si consolida tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Semplicemente chiede di giocarla con maggiore scaltrezza cosmopolita, malizia negoziale e attitudini brillantemente glocal. Non solo Totò, in altre parole: ma pure Dalì. Sullo sfondo della polemica antimodernista corre l’idea, parrebbe un po’ alla Brandi, di una fedeltà profonda, “antropologica”, della cultura figurativa italiana all’immagine, intesa ambiguamente sia in senso ludico che cultuale.

Colpiscono le analogie tra Bonami e Cattelan, l’artista più vicino al curatore. Italics ci appare di fatto come una sorta di cristallizzazione curatoriale della Nona Ora di Cattelan, scultura in lattice, cera e tessuto raffigurante papa Giovanni Paolo II colpito da un meteorite. Presentata nel 1999 alla Royal Academy di Londra in occasione della mostra Apocalypse e battuta due anni dopo da Christie’s alla cifra record di 886 mila dollari, la scultura costituisce sotto il profilo commerciale l’inatteso, deflagrante successo di un artista italiano nel contesto del sistema internazionale dell’arte. Dolente e lussuosa al tempo stesso, l’immagine del papa conquista la comunità angloamericana: congiunge ambiguamente liturgia e glamour pubblicitario, enigma del martirio e retoriche visuali da set. Può apparire come una professione di fede, come l’autoritratto en travesti di un artista impegnato in un difficile negoziato tra Centro e Periferia; oppure, all’opposto, come l’astuta, commerciale dilapidazione in chiave etnografica, sulla piazza metropolitana, di un’identità culturale e religiosa millenaria.

Vogliamo esemplificazioni più brutali della subalternità del mercato italiano dell’arte contemporanea al capitale internazionale, in particolare alla comunità angloamericana? Bene. In corso in questa stessa primavera 2012, nella sede newyorkese della galleria Haunch of Venison, Afro Burri Fontana, una mostra che si è proposta di promuovere negli Stati Uniti il modernismo italiano colto nei suoi pretesi apici (fino al 28 aprile). Per farlo la curatrice, Elena Geuna, ha curvato in senso gratuitamente adulatorio la storia dell’arte italiana. L’interesse storico degli artisti esposti, apprendiamo, risiede nel loro “intenso scambio interculturale con gli Stati Uniti” – affermazione, questa, del tutto fallace sul piano storiografico e risibile nello scrupolo di correttezza politica. Che nelle opere di Burri, dalle Muffe ai Sacchi a Ferri, si depositi una caustica riflessione politica sul dopoguerra italiano e sul processo di ricostruzione democratica; o che l’attività di Fontana al tempo dei Buchi e Tagli sia accompagnta da costanti inquietudini sul mutato equilibrio geopolitico e culturale del pianeta: questo sembra non avere interessato Geuna oppure aver costituito motivo di imbarazzo alla sua sbrigativa agenda commerciale. E’ stato dunque taciuto. Sarebbe stato sconveniente proporre una mostra sulla complessità tutt’altro che pacificata dei rapporti tra Italia e Usa negli anni Cinquanta e Sessanta? Non sappiamo. E’ tuttavia rilevante osservare che il maggior titolo di Geuna sembra essere quello dell’amicizia con François Pinault, proprietario di Christie’s e dunque della stessa Haunch of Venison. Già nell’organico di Sotheby’s Londra, in seguito curatrice di mostre memorabili come la retrospettiva di Pierre & Gilles alla seconda Biennale di Mosca(2007), Jeff Koons a Versailles (2008) e Lucio Fontana: Luce e Colore [sic] al Palazzo Ducale di Genova (2008), Geuna appare un’esecutrice elettiva quanto discreta dell’attuale disegno di commodification del modernismo italiano nel contesto globale.

Nel 1968 Paolini produce un fotocollage dal titolo Autoritratto. Malgrado il titolo, l’immagine non mostra il volto dell’artista, piuttosto la comunità amicale e degli affini. Lonzi è raffigurata in primo piano con Fontana e il Doganiere. Scorgiamo Boetti, Festa, Fabro, Consagra. E ancora: Corrado Levi, Anna Piva, Marisa Volpi, Pistoi, Argan, Calvesi. Le distinzioni di ruolo e cerchie professionali, pure presenti, non si sono ancora rivelate distruttive. A distanza di pochi mesi, il dibattito su statuto e ruolo sociale della critica porterà, in Italia, a distaccare curatorship e scrittura, organizzazione e interpretazione con argomenti che appaiono retrospettivamente non di rado sommari o strumentali.

La discussione sull’arte italiana contemporanea privilegia oggi gli anni Sessanta e Settanta. Tralascia in larga parte di indagare i decenni successivi o di esaminare criticamente le più significative posizioni critiche e curatoriali. Si interpreta l’Arte povera come “arte politica” tout court, riconoscendo importanza cruciale (forse eccessiva?) a Pistoletto. Emerge, tra molte semplificazioni, un elemento che consideriamo positivo: per la prima volta dalla stagione dei movimenti (forse addirittura dal dopoguerra) è condivisa la necessità di storiografie costruite “in presenza delle opere” (la citazione è da Longhi). Si presenta dunque l’opportunità di aprire a una filologia tutt’altro che repertoriale, al contrario: politica e immaginativa, praticata nei pressi di studi culturali e sociologia della cultura (di cui appare dispositivo metodologico preliminare), disponibile infine a provarsi sul piano dei processi culturali in divenire.

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Norimberga, Neues Museum. L’edificio si apre grandiosamente su una piccola piazza prospiciente le mura. La facciata, a vetri, svela interamente l’interno. Le opere d’arte esposte nelle sale sul fronte rimangono sempre visibili: un po’ l’efftto delle case-giocattolo, con gli arredi a vista e la facciata rimossa. Una sala al piano superiore è dedicata Ettore Sottsass jr. Una sorta di monografica permanente, con gran parte dei progetti. Storia d’Italia tra Cinquanta e Ottanta: dalle macchine da scrivere Olivetti ai progetti per Memphis e Alchymia. Che dire? Una macchina da scrivere come Praxis 48 (1964) riflette ancora una progettualità “riformista”, interna alla società industriale e al mondo della produzione. Rimanda a una figura (a un’ideologia) di designer che si interroga sulla tecnologia, l’industria, il lavoro. Con Valentine (1969) e i progetti in chiave “architettura radicale” le retoriche visuali mutano bruscamente. Sperimentare le potenzialità “liberatorie” del “consumo”: questo il proposito in tutta la sua ambivalenza (Pop e anti-Pop, americano e antiamericano, avveniristico e regressivo-puerile). Ne viene fuori un iperstile in chiave Las Vegas, ironico e chiassoso, che sembra proporsi, nell’incredulità generale, di trarsi fuori dalla storia con un gesto unilaterale; e progettare gioco e leggenda.

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_Doppiozero, 11.6.2014, qui

Gian Felice Rocca, presidente di Techint e Assolombarda, su #dirittoallostudio#università #formazione. La distopia neo-con di un “paese di periti”.


I percorsi educativi superiori dovrebbero essere profondamente modificati per venire incontro alle esigenze dell’industria manifatturiera, e anche l’università, dal punto di vista di Riaccendere i motori, richiederebbe modelli organizzativi del tutto diversi. Rocca è cauto e felpato ma le sue affermazioni, se contestualizzate, preludono a svolte radicali. Così, quando auspica che l’ANVUR introduca distinzioni “tra forti competenze educative e tecnologiche e obiettivi di eccellenza scientifica”, non si limita a plaudire all’operato dell’agenzia nazionale di valutazione universitaria. Si schiera invece per la netta separazione tra research- e teaching universities

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_ROARS, 8.6.2014, qui

Disoccupazione e sottoccupazione intellettuale producono oggi in Italia quello che le “politiche identitarie” producevano nei campus degli Stati Uniti tra Ottanta e Novanta: un gioco di censure incrociate e sommarie. Qual è il costo sociale dell’opacitá dei processi di reclutamento? Un’intera generazione è allontanata dalle professioni della ricerca. Hanno senso, in tale contesto, le retoriche identitarie sul “patrimonio” e l’eredità culturale? Se l’universitá produce esclusione, per di più in modi percepiti spesso come illegittimi, ci può essere trasmissione del sapere tra generazioni? Il “discorso culturale” si organizza oggi in Italia per bande rivali autocostituitesi su base anagrafica. Con quali conseguenze? Ne scrivo @ ROARS Return on Academic ReSearch.